testo di Roberto Mutti
I fotografi che si sono dedicati a riprendere i musicisti di jazz amano tutti indistintamente questa musica: la ragione risiede probabilmente nel fatto che si tratta di un genere che ha molte analogie con la fotografia stessa per il loro comune carattere impulsivo, spesso ruvido eppure altrettanto comunemente attratto dai virtuosismi, per quel gusto dell’improvvisazione che tuttavia riposa su una sicura autorevolezza nell’uso dei propri mezzi, per l’amore e la cura per gli strumenti.
Arturo Safina non fa eccezione a questa regola e, accostando in una selezione che raccoglie immagini scattate in tanti anni fotografie dalle caratteristiche molto diverse fra di loro, si propone come autore eclettico nella sua capacità di giocare su più registri. Se è evidente che cambi spesso il suo modo di fotografare è altrettanto chiaro che il suo intento è quello di stabilire una sintonia con i musicisti che gli stanno di fronte così da adeguarsi al loro particolare stile.
Questa la ragione per cui usa il colore per sottolineare l’esasperazione delle luci di scena che avvolgono i protagonisti mentre in altri casi gioca di sponda con le ombre per cogliere quello che nei musicisti è l’inevitabile aspetto oscuro e talvolta melanconico che si nasconde dietro l’apparire. Se poi cambia spesso l’angolo di ripresa passando da quella frontale a quella dal basso e perfino dall’alto, alternando la figura intera alla ripresa ravvicinata fino al piano americano è per evitare la ripetizione che, di fronte a questo genere di musica, sarebbe di per sé una contraddizione in termini. Il suo particolare punto di osservazione (quello, privilegiato, del mirino di una fotocamera) gli permette anche di sottolineare un aspetto che talvolta passa inosservato: il rapporto che il musicista stabilisce con il suo strumento. Ed ecco che c’è chi lo porta con sé affettuosamente come compagno di viaggio anche quando non suona e chi lo abbraccia durante le esecuzioni come se le corde della chitarra gli fossero indispensabili, come se il pianoforte fosse una nave da guidare con determinazione, come se la tromba o il sax fossero un’ideale prosecuzione del proprio corpo. D’altra parte il jazz è così, estroso, serpeggiante e anche un po’ imprevedibile.
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