Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti”
(Pina Baush)
In un testo musicale la struttura è creata dal tempo che si esprime nella componente ritmica affinata dall’armonia mentre nell’arte coreutica questo compito è il mandato del movimento. Anche in fotografia il tempo è l’artefice occulto delle immagini. Fotografare vuol dire infatti confrontarsi con il tempo nella sua forma più sfuggente, quella per cui nell’istante stesso della sua genesi l’immagine destinata a proiettarsi nel futuro, già parla del passato. Per questo aspetto potremmo considerare la fotografia della danza la massima espressione della sfida che contrappone l’autore al tempo.
La restituzione fotografica di quanto avviene sul palcoscenico è infatti la risultante della percezione autoriale della sinestesia generata dall’insieme di musica, gesto singolo e collettivo dei danzatori, coreografia e scenografia.
Ne consegue quindi che l’atto fotografico non è altro che la sintesi in cui si coagulano la sensibilità e la cultura personali dell’autore che vive, al cospetto dello spettacolo, il duplice ruolo di spettatore e attore, quest’ultimo in quanto agisce l’atto fotografico. All’interno di questa dualità prendono vita le scelte che, a fronte di un numero di combinazioni potenzialmente tendente all’infinito, determinano il risultato finale. Nel contesto dell’analisi di questa selezione di immagini è possibile dare libero sfogo a una lettura in cui le associazioni all’interno dell’enciclopedia personale di ognuno rivelano implicite tracce dei trascorsi evolutivi dell’arte occidentale.
Prendiamo ad esempio all’interno di questa selezione di immagini la fotografia in cui spicca un fondo dai toni estremamente caldi. La sensazione che si prova grazie all’azione congiunta di punto di ripresa e scelta dell’istante è che la coreografia sottolinei il movimento, attraverso una serie di salti a distanza di brevi unità di tempo e spazio. Il prelievo fotografico si fa testimone non solo delle scelte del coreografo (e ovviamente delle abilità dei danzatori), ma soprattutto della scelta interpretativa dell’autore (spettatore-attore) dell’immagine, dimostrando come questi si sia in precedenza attivato nel ruolo di ricevente del testo sincretico che si attua sul palcoscenico. Ne deriva un’immagine in cui protagonista è il movimento articolato, per usare la definizione di Ruggero Eugeni. In altre parole il movimento viene distribuito su più figure rimandando implicitamente al notissimo Parabel der blinden di Pieter Bruegel il Vecchio. In questo celebre dipinto, che si rifà al passo biblico che indica la sicura caduta di un cieco che si affidi alla guida di un altro cieco, vengono rappresentate, attraverso tre coppie di uomini, altrettante fasi dell’inevitabile caduta. Analogamente sembra in questa fotografia di vedere la scomposizione del movimento delle danzatrici che spicca sulla sfondo grazie al contrasto cromatico generato dal loro costume di scena.
Il tempo, invisibile per sua stessa natura, assume dunque una sua forma simbolica, plasmata dall’interazione tra danzatori, coreografo, scenografo e fotografo, cosa che, nel gioco delle libere associazioni, richiama alla memoria le parole che Dostoevskij, in Demoni, fa pronunciare ad Aleksej Nilic Kirilov nel suo dialogo con Nikolaj Stravrogin sulla fine del tempo: «Non lo si nasconderà da nessuna parte. Il tempo non è un oggetto, ma un’idea. Si estinguerà nell’anima».
Sandro Iovine
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